La Sindrome di Lyndon.
«Nessun ragazzo, per la prima volta libero e con venti dineri in tasca, si sente veramente triste. E Barry partì alla volta di Dublino senza tanto pensare alla cara mamma rimasta sola e al focolare lasciato alle sue spalle, quanto al domani, con tutte le meraviglie che gli avrebbe portato»
(Barry Lyndon, Stanley Kubrick, 1975)
Quando mi chiedono dove vivo non ho mai molti dubbi, rispondo con sicurezza «Dublino.». La risposta sembra essere fin troppo laconica, a tratti disincantata, ma ha un suo senso. Quando si dice di vivere a Dublino, si traccia la profonda differenza che passa tra vivere l’ Irlanda ed in questa piccola ‘vorreiesserelondramanonposso’. E’ una delle città più globalizzate d’Europa, si cammina per le vie del centro tra i maggiori brand mondiali, interrotti solamente, di tanto in tanto, dai malinconici sguardi delle statue Joyce e San Patrizio, che silenti hanno assistito all’ipertrofia economica dublinese.
Da qui parte la Sindrome di Lyndon: dalla sensazione che ci si trovi in un grande parco giochi, colorato, divertente e un po’ immaturo. Finiti i gettoni, si entra in un profondo stato di frustrazione, che spesso termina con una profonda debacle personale.
La Sindrome di Lyndon ha più fasi: l’attesa delle meraviglie, la presa dei denari, il primo disincanto la lamentatio ed il rifiuto. Pochi dei miei miei connazionali in Irlanda scampano a questo psicodramma.
Ne l’attesa delle meraviglie, tutto scorre con entusiasmo da vendere. Che sarà mai un po’ di vento, i sabati clone passati nei pub e la barriera linguistica? Nulla. In questa fase ci si battezza a tutto con gioia ed eccitazione, come fosse il primo giorno di scuola.
Poco dopo si passa alla Presa dei Denari. Molti italiani, ormai sclerotizzati a contratti a termine, lavoro in nero, licenziamenti lampo e stipendi ridicoli, trovano nella capitale: lavoro, ottimi stipendi e contratti decisamente rassicuranti. Qui, fino a poco tempo fa, i soldi sembravano crescere sugli alberi insieme alle mele. Bastava scrollare un po’ quell’albero, ed i soldi cadevano solo per forza della gravità. Facile, fin troppo.
Il primo disincanto si insinua proporzionalmente con l’avanzare della routine: levataccia, pioggia, Luas/Dublin Bus, pioggia, orario d’ufficio, pausa pranzo con un muffin cancrenoso, Luas/Dublin Bus, pioggia, Pub e casa. Già, il bar popolato di vecchi che giocano a briscola sotto casa, comincia a mancare. Brutto segno.
Innescata la miccia del disincanto, ci si dirige verso la più tormentata e lunga delle fasi della Sindrome di Lyndon: la Lamentatio. Il tempo comincia ad essere fastidioso, in Italia sembrava esserci sempre il sole. Il cibo diventa pesante e maleodorante e la comparazione con gli spaghetti alla bolognese delle mamma diventano argomento fondante di molte serate tra connazionali. I colleghi sono un po’ meno simpatici, perché per noi bevono sempre un po troppo. I pub diventano tragicamente seriali e lo Spire diventerebbe evidente solo se crollasse in Talbot Street provocando una strage.
Dietro l’angolo ti aspetta Il rifiuto, e siamo quasi alla fine del viaggio a ritroso. Diventa impossibile vivere in un posto dove piove sempre, in Italia – forse – non pioveva mai. Si comincia a mangiare solo a casa, esclusivamente italiano. Si insinua il pensiero che forse un posticino di lavoro in Italia lo si può ancora trovare, magari facendosi aiutare da qualcuno in alto. Gli irlandesi sono odiosi, ma chi pensano di essere?
Alla termine dell’ultima fase, molti tornano a casa sconfitti dall’impossibilità di adattarsi e di accettare una cultura diversa dalla propria. Dal tutto giusto al tutto sbagliato, credendo che il nostro giudizio sia assoluto e che i nostri parametri siano quelli di un mondo migliore. Una piccola grande mediocrità, tipica dell’epoca del individualismo qualunquista. Di quelli che hanno da dire su tutto e tutti, senza mai avanzare.
Ci si dimentica con fretta di tante, troppe cose: il ribrezzo provocato da governanti scellerati, le continue umiliazioni sul posto di lavoro, il gravissimo arretramento del nostro paese, la stagnazione, l’arrembante recessione, la malasanità, la casta e chi più ne ha ne metta.
L’erba del vicino è sempre più verde, e non ci sono sfumature. E’ solamente più verde. Quando il parco giochi ha terminato di esercitare il suo appeal su di noi, ci si annoia. Troppo comodo.
Utilizzare i propri parametri per giudicare un popolo, una città ed una nazione è bieco, mediocre e patetico. Sopratutto quando si tralascia drammaticamente il trascorso storico culturale e la weltanshaung di una popolazione. Parnell, O’Connell, Sir John Gray e Larkin non sono solo ammassi di metallo antropomorfi lanciati a caso su O’Connell Street, forse sono una prima chiave di interpretazione.
Cosi’ mentre l’italiano si crogiola con Leonardo Da Vinci, morto e stramorto secoli fa, il dublinese si tracanna una pinta con un vago disinteresse per il sepolto genio italico. Uscendo per pisciare, l’irlandese cade rovinosamente per il troppo alcool in corpo. L’italiano esce dal pub, guarda e sbeffeggia il dublinese stramazzante, e poco dopo si infrange contro un palo per ammirare il culo di una irish.
Non so chi sia meglio o peggio, non mi interessa neanche. Mi irrita maggiormente l’incapacità di vedere dimensionalmente i fatti, i luoghi e tutti i componenti di una cultura. Mi avviliscono i luoghi comuni e la strenua volontà di vedere solo quello che si vuole, a seconda dei propri piccoli bisogni e della convenienza nell’immediato. E’ una forma di egocentrismo nazionalpopolare, che si fa strada solo quando si e’ lontani da casa. Perché, diciamocelo, quando si era in patria, non fregava poi a molti in che parte si stesse andando.
Dublino, in fondo, è un posto in cui passare o trapassare, un città dove si patteggia con il diavolo tutti giorni. Se sei qui anche tu, il tuo mondo non era di certo migliore.
Passando a cose serie, siate i benvenuti.