Updates from RSS

  • 11:21:34 am on settembre 7, 2012 | 1 | # |

    Gli Emigranti e il Principio di Doppia Assenza, I.

    Dopo qualche anno di permanenza all’estero, la sensazione di essere inconsciamente assenti sia dal luogo che si e’ lasciato che in quello di dove si vive, diventa proporzionalmente alla lontananza, sempre più forte. Si sente di non appartenere più attivamente a nulla e si rimane intrappolati in una zona umbratile e liminale della propria esistenza, dove si e’ soli con il proprio dilemma culturale ed esistenziale. Ci si sente, metaforicamente parlando, come se si stesse spiando in lontananza qualcosa che non fa parte realmente del nostro microcosmo, che a sua volta tende a contrarsi radicalmente.

    Non appartengo, quindi non esisto.

    Appartenere, seppur sia una visione tanto irrinunciabile quanto obsoleta, definisce ancora l’identità delle persone. Il non-appartenere, a sua volta, le disintegra e polverizza fino al suo minimo termine. Purtroppo, la maggior parte di noi, come entita’ ridotte al minimo della propria essenza, non sono quasi mai nulla di peculiare e nonostante ci sia sempre molto baccagliare sulla propria individualità, rimane che di fatto siamo molto piu’ l’indotto di quello che ci ha circondato.

    Dalla zona di  non-esistenza, una propulsione emozionale pero’ può reagire e  far germinare un desiderio: quello integrarsi, assomigliare ed essere parte di un maggioranza al fine di ottenere una nuova identità ben definita.

    Dal momento che si avverte la spinta di voler essere parte di un’altra cultura, bisogna accettare che esista una fase di passaggio, durante la quale si abbandona parzialmente la cultura nativa per un’altra. In questa paradossale schizofrenia, alcuni processi scrittura e sovrascrittura della nostra memoria organica si mettono in moto per ridisegnare le nostre mappe mentali. Per questo motivo la vostra mappa culturale originaria potrà, in molti casi subire uno o più di questi processi:

    1) Sovrascrittura
    2) Sovrapposizione
    3) Mimesi

    Nel primo caso, il portato culturale iniziale (A) verrà sovrascritto con i nuovi elementi appresi (B): quindi B soppianterà A. Nella sovrapposizione,  invece, si tenderà a creare un posticcio culturale formato da ambo gli elementi, che si sovrapporranno diventando AB. Nel terzo caso, si tenderà a mimetizzare B con A e viceversa in una mimesi mistificatoria continua.

    Nei primi due casi, non va dimenticato che la crudele divinità dell’integrazione richiede sempre un obolo specifico: per avere qualcosa, dovrete abbandonare parte di voi, ed e’ proprio di quella cifra astratta di cultura che vi ha tenuto in piedi fin a quel momento che stiamo parlando. Non si può rimanere nel proprio insieme culturale e pretendere di  entrare in un altro, senza togliersi le scarpe e lavarsi le mani accuratamente. Infine, se e’ quella della mimesi la strada che state percorrendo, prima o poi cadrete in fallo e sarete costretti a fare la vostra offerta o a lasciare malamente l’insieme che pretendevate di occupare.

    Benvenuti nel nulla.

    Siete italiani, ma vivete in Irlanda. Votate in Italia, ma vivete in Irlanda. Siete italiani ma parlate Inglese. Non siete irlandesi, ma vivete tra loro. Non parlate irlandese, ma vivete in Irlanda. Pagate le tasse in Irlanda, ma non potete scegliere chi gestirà i vostri contributi. Vi interessate di politica italiana, seppur non vi influenzi. Vi interessate quel poco che basta di politica irlandese, ma non potete influenzarla. […]

    Tra la fase d’arrivo in un altro paese e il quasi immediato rifiuto per la nuova cultura (La Sindrome di Lyndon) e il seguente tentativo di ingresso in un’altra (processo d’integrazione), c’è quindi quella zona umbratile della doppia assenza, dove  non si fa parte né di una né dell’altra zona; si esiste fisicamente ma si diventa culturalmente indefinibili, pendenti fra l’una e l’altra parte a momenti alterni, in una schizofrenia incontrollabile e confusionaria.

    I sentieri del processo d’integrazione sono in genere due e sono quasi sempre determinati da una scelta (reversibile) che farete dopo l’iniziale e irrazionale rifiuto:

    Arrivo ———–> Rifiuto ———> Accettazione ———> Doppia Assenza ——–> Integrazione (Parziale o completa, seppur  sia piu’ rara)
    Arrivo ———–> Rifiuto ———> Negazione  ———> Mono Assenza ——–> Abbandono

    Scelto quindi il vostro momentaneo destino, se avrete avuto la forza di accettare interiormente la nuova entità culturale, dovrete fare i vostri primi passi nella zona nulla della doppia assenza alla ricerca della fine del labirinto.

    Per compenetrarsi completamente con un’altra cultura, oltre che a dare inizio ad un processo di violenza interiore, dovrete anche ricercare l’accettazione e il compiacimento altrui, e non che questo, si intenda, sia sempre cosa positiva. Tuttavia lo sarà se voi riterrete se i valori verso la quale veleggiate, siano quelli più compatibili a voi.

    Tornando l’accettazione, che e’ una delle chiavi fondamentali del nuovo percorso, si badi bene, che per quanto edulcorata da delle formalità culturali, e’ realmente il Santo Graal di ogni expat. Detto in parole povere: sarete accettati se vi apriranno le porte delle loro comunita’ come un membro effettivo e non come un ospite occasionale. Che non si scambi, percio’, la gentilezza e la tolleranza altrui, con un invito ad entrare in un territorio a cui non apparteniamo realmente.

    Ci sono, oltretutto, dei fattori limitanti, che comunque difficilmente vi permetteranno di uscire completamente dalla vostro sistema originario :

    •    Differenze fisiognomiche
    •    Barriera linguistica
    •    Mancanza di legami famigliari
    •    Mancanza d’identità e appartenenza storico-politica locale

    Se ogni cultura, in quanto tale, possiede dei tratti peculiari, voi ne potrete acquisire solamente una risibile parte, mentre tutto l’inaccessibile rimanente (aspetto fisico, sicuramente difficile da mimetizzare) verra’ limitato ad un mera emulazione, persa nella ricerca affannosa di un riconoscimento altrui.

    L’emigrante tenta, di norma, di forzare i cancelli culturali armandosi prima di orpelli estetico comportamentali e poi di strumenti sociali ed intellettuali. Basterà volgere la propria attenzione alle nostre latitudini, per capire che una grossa fetta di immigrati, seppur ancora legati a retaggi clanici, tenti di rendersi paritaria attraverso un materialismo estetico e iperbolico. Sono il nostro riflesso esagerato ed imbarazzante, che produce in noi una profonda irritazione o sdegno (a seconda del proprio retaggio moralistico) per un qualcosa che in realtà e’ già parte della nostra stessa cultura. 

    In sostanza si vuole somigliare, tentando una mimesi esteriore ed interiore che vi darà l’illusione di essere qualcosa che in realtà non siete e non sarete mai. E questo limite, che suona come una condanna, e’ dovuto alla fondamentale forza che ogni cultura e codice genetico attribuisce ad ogni persona fin dalla sua nascita, determinandone la sua identità riconosciuta. Fin dal primo giorno di permanenza sulla terra, gli umani intorno a voi si affanneranno per darvi un’identità ben precisa e questo per motivazione specifica: siamo sopratutto (ma non del tutto) la risultanza quello che e’ impresso su di noi.

    Nel caso dell’emigrante, si potrebbe parlare, magari azzardando un po’, d’identità primaria e secondaria (o posticcia), fermo e ammettendo che probabilmente una futura considerazione piu’ flessibile e liquida (cit.) delle identità nazionali possa essere un fondamentale passo per permettere un minore disagio esistenziale per chi normalmente dovrà muoversi da luogo a luogo.

    Purtroppo, a mio modesto parere  la forza dei fattori limitanti che ho elencato sopra, fanno ancora di noi emigranti di nuova generazione, degli apolidi senza identità che si aggirano nelle zone più grigie e vacue della dimensione expat alla ricerca di una identita’ persa in partenza.

     
  • 02:13:09 PM on febbraio 29, 2012 | 14 | # |

    Gli italiani in Irlanda e la questione meridionale.

    Mi sono arrivati alcuni commenti (cassati per scelta personale) che sostengono che l’unico per modo per la quale i meridionali possano avere una carriera professionale soddisfacente, sia quello di andare all’estero in paesi “inferiori” come l’Irlanda. Solo in questi luoghi degradati e reconditi del mondo, secondo un pensiero strisciante di alcuni italiani, i meridionali potrebbero avere qualche speranza di riscatto sociale e professionale.

    Nonostante questo sia il riflesso di un sentimento di pancia ultrasettentrionalista portato all’estremo, trovo la questione interessante, poiché la contrapposizione Meridione-Settentrione nel nostro paese fa parte di un conflitto che risiede in ogni italiano, ovunque egli viva. Purché tuttavia si voglia edulcorare quanto possibile questo sentimento, e’ innegabile che vi sia una base d’intolleranza da ambo le parti e che ci sia prima di tutto un assunto di superiorità del Settentrione rispetto al resto del paese. I motivi, ovviamente, sono molteplici e complessi e non mi voglio addentrare troppo nello specifico tecnico statistico della questione. E’ invece l’approccio fenomenico che mi interessa, i numeri li lascio a chi sa maneggiarli meglio di me.

    E’ chiaro che vorrei evitare la generalizzazione, ma girare intorno al problema, dandoci fraterne e ipocrite pacche, non serva a nulla e tanto vale rimettere le mani nello sterco per vederne consistenza, colore e odore. Il problema esiste e ha radici da ambo le parti, perché fra carnefice e vittima (ugualmente fra truffatore e truffato) esiste sempre una connessione morbosa e biunivoca.

    Partiamo dall’assunto che alcuni settentrionali ritengano che ci siano solo due modalità di affermazione del meridionale:

       •    lavorare nel Settentrione per un settentrionale;
       •    emigrare in paesi considerati (dal settentrionale) inferiori.

    La prima affermazione sottolinea il fatto che il Settentrionale e’ un unicum in termini di organizzazione, moralità ed efficienza e che quindi sia l’unico referente civilizzante per il resto del paese. La seconda, invece, afferma che qualora l’inferiore non si voglia assoggettare alla guida nordico italica, non avrà altra speranza che sperare di primeggiare in civiltà inferiori nella quale il meridionale possa essere considerato superiore o almeno “utile”. Queste due considerazioni, ovviamente, vanno completamente al di la’ della considerazione della reale qualità e talento di una determinata persona del Sud Italia.

    La discriminazione della professionalità meridionale in Italia esiste per ragioni ben precise e questo modus non fa altro che strozzare le velleità di qualsiasi valore provenga dalla cintola del paese in giù.
    Il Settentrionale, in genere, crede che la maggioranza dei meridionali sia determinato all’interno di un insieme di comportamenti endemici della sua cultura e che non ci sia possibilità di riscatto, appunto perché impossibilitato dall’uscita dal ambito terronistico più becero. Il Meridionale, d’altra parte, impugna la propria cultura come orpello difensivo e se la incolla addosso come fosse un’armatura permanente e indissolubile, dando modo al proprio accusatore di avvalorare la propria tesi.

    Se il meridionale, dal suo canto, e’ diventato una vera e propria categoria antropologia, e’ sia perché i suoi aguzzini lo volevano, ma anche perché l’etichetta di meridionale o terrone, in  qualche modo e’ stata prima motivo di orgoglio identitario e poi prigione dorata. Una sorta di marchio di riconoscimento, che dovrebbe suscitare sospetto, rispetto, terrore e fascino.

    Questo, a sommi capi, e’ parte del nostro conflitto interno, ma la questione cambia, quando il meridionale emigra e si rapporta con un’altra cultura, che non nutre dei pregiudizi aprioristici nei suoi confronti.

    Il meridionale in Irlanda e’ un italiano del Sud, tutto qua.

    Gli unici stereotipi che si deve portare sono simili a quelli dei colleghi del Nord. Le due entità, quindi si appiattiscono assimilandosi in un’unica categoria: quella italiana. E questo, i settentrionali fanno difficoltà ad accettarlo, poiché non possono esprimere il loro retaggio di superiorità rispetto al collega, magari anche più bravo, meridionale in Irlanda.

    In Irlanda, di meridionali ce ne sono tanti e seppur siano qui tutti più o meno per gli stessi motivi, per enorme dispiacere del Nord Italia, sanno anche farsi valere, per il semplice motivo che vengono considerati prima sulla base delle loro qualità, risultati e comportamento. Poi, eventualmente, anche per come fanno la pizza, ma quella e’ un’altra storia.

    Questo vuole dire che i meridionali non fanno carriera in Italia solo per motivi discriminatori?
    No, ovviamente. La questione e’ che partono svantaggiati in primis e diventano vittime di se stessi successivamente. Così come l’italiano diventa metafisico e rappresentante stesso del proprio stereotipo in Irlanda, tanto il meridionale fa in Italia attuando una elevazione ad iperterronica quando richiesto, per difendersi dagli organismi nemici del Nord. Togliendosi, perciò, ogni possibilità di riscatto.

    Questo vuole dire che tutti i meridionali in Irlanda fanno carriera?
    No, assolutamente. Fanno carriera solo se valgono qualcosa.

    Esiste quindi una questione meridionale per gli Italiani in Irlanda?
    No, non direi perché molti percepiscono il fatto di essere accomunati tutti sono un unico catino culturale e il problema si pone solo quando si ricreano microclimi nella comunità sociali e professionali italiane in Irlanda. Solo allora il conflitto torna in auge.

    E lo so, che per i lettori del nord, sarà un shock sapere che visti dal di fuori, gli italiani sembrano tutti molto simili, almeno in termini estetico comportamentali. Siete uguali si’, ve lo ripeto per farvi passare un altro brivido lungo la schiena.

    Emigrando si annullano delle differenze che in patria sono laceranti e deleterie, semplicemente perché chi vi sta giudicando non ha interesse a sapere se il vostro vicino sia un industriale del Veneto o un pregiudicato dei quartieri spagnoli. E le differenze si annullano anche perché il contesto cambia e non ci sono altre finestre da rompere.

    E questo non vuol dire che il contesto nella quale si cresce non sia rilevante, lo e’ ma nella dimensione in cui si traduce in comportamenti similari e ciclici, sia che siano dannosi o meno. L’unica cosa di ciclico che gli stranieri vedranno in voi qui e che siete voi con la vostra etichetta di italiani addosso, tutti uguali omologati sotto un altro marchio. Cosi’ come un irlandese di Cork, sarebbe uguale ad uno di Dublino a Milano.

    L’Italia vive di fatto ancora un campanilismo e fanatismo provincialista, che ha portato il paese alla sclerotizzazione di conflitti che hanno ancora poca ragione di esistere; i danni di questo, appunto, si traducono nell’emigrazione di molti che hanno preferito fare gli italiani in Irlanda, piuttosto che i terroni nel Nord Italia.

    Ora qualcuno si chiederà se io sono un cosiddetto meridionale o meno e dal momento in cui ve lo chiederete, vi potrete rendere conto da soli che vivete nello schema di cui ho appena parlato e che siete pronti a riaccendere il conflitto in un ciclo senza fine. Tanto i colpevoli sono sempre gli altri.

     
  • 04:55:40 PM on febbraio 20, 2012 | 2 | # |

    Le voci dei padroni.

    Piccolo e striminzito stava il foglietto bianco che inneggia all’identitarismo irlandese e alla difesa strenua della propria cultura contro l’infezione straniera. Poi mi sono ricordato che le stesse cose si dicono dalle nostre parti e mi sono rasserenato: sono a casa.

     

     
  • 11:39:41 am on ottobre 6, 2011 | 5 | # |

    Tutti gli inglesi mentono.

    Questo blog non e’ morto, o almeno lo e’ in apparenza. Se non vedete nulla affiorare in superficie, non vuol dire che non mi stia agitando e dimenando nel sonno in preparazione di altro.

    Visto che mi sono imposto di non pubblicare altro, finche’ non raggiungerò un obiettivo in particolare, devo resistere alla tentazione di aggiornare il blog con una delle tante maledette bozze che urlano vendetta.

    Quindi lascerò solo delle briciole su questo spazio fino alla data fatidica, chiedendomi inutilmente se tutti gli inglesi mentono.

     
  • 12:16:21 PM on luglio 6, 2011 | 9 | # |

    Cinque motivi per non vivere in Italia.

    Anni fa scrissi, tra il paradossale e surreale, venti motivi (qui e qui) per non emigrare in Irlanda; a distanza di anni, mi sento in dovere raggruppare in cinque punti delle motivazioni plausibili per non vivere in Italia.

    Va da se che ognuno abbia una personale scala di valori, ma per non cadere nel relativismo assoluto, dei punti vanno messi, sia che siano condivisibili o meno.

    Buona discesa nel maelstrom.

    1) Approssimazione endemica. C’è una percentuale incalcolabile di azioni, fatti ed entità che si muovono ed agiscono per approssimazione. Se stabilite, ad esempio, che una promessa fatta da un vostro conoscente valga 6 (su una scala da 1-10), ci si deve aspettare che la variabilità del risultato possa essere 10 come 2. Il risultato compreso in questa forchetta, poi, viene giustificato con la nostra proverbiale eccellenza nell’arte retorica, così da mistificare ogni risultato, giusto o sbagliato che sia. Questa approssimazione si riflette nel tessuto sociale, politico e amministrativo, creando una reazione di effetti caotica tra l’imprevedibile ed il surreale.

    Il caos parte dal basso, dalle comunicazioni brevi ed immediate, ma che creano una serie di proposizioni fallaci a catena.

    Mario: “Hai finito di fare questa cosa?”
    Roberto: “No, ma ci sono quasi.”
    Mario: “Mi avevi detto la stessa cosa 5 minuti fa.”
    Roberto: “Davvero? Non mi ero accorto che fossero passati 5 minuti. Ma va be’, non avevo specificato un tempo determinato.”
    Mario: “Io avevo considerato 5 minuti, il cliente sta aspettando.”
    Roberto: “Potevi dirmelo avrei fatto prima, non sapevo avessi una scadenza così stretta.”
    Mario: “Lasciamo stare, finiscilo prima che puoi e mandamelo.”
    Roberto: “Sì, ora vedo.”

    Da questo dialogo all’apparenza innocuo, si noterà che non si richiede più nulla in maniera precisa e seppur si possa specificare un tempo determinato per termine un’azione, questo sarà un valore approssimativo. Cinque minuti, quindi, sono una misura personale dettata dai propri tempi esistenziali e niente altro, così come tutto il resto.  Allora ripuliremo Napoli in 5 giorni, ipse dixit.

    2) Tolleranza e Intolleranza. Entrambi gli atteggiamenti vanno intesi ad ampio raggio, quindi dalla sfera privata a quella pubblica, tolleranza passiva e intolleranza attiva, sono due mezzi di accettazione fideistica di un vivere remissivo, rabbioso ed emotivo. La tolleranza è richiesta sempre in forma passiva per accettare l’approssimazione di cui sopra (cfr. punto 1).  Allora si tollera l’imprecisione, la cialtroneria, il caos e la menzogna in tutte le sue  forme piu’ varie. Per vivere in Italia, si deve tollerare una serie di effetti indesiderati la di cui causa è spesso indefinita; senza la capacità di tollerare, non esiste sopravvivenza. Ma un ancora di salvezza c’è, e si materializza nell’intolleranza attiva.

    Non arrivo a fine mese (tolleranza passiva) > mi promettono miglioramenti (approssimazione) > maledetti albanesi (intolleranza attiva)

    Allora si canalizza il proprio odio altrove, su oggetti e soggetti che sono solo vagamente correlati alla causa principale, ma più facilmente accusabili. Se biasimo, ad esempio, l’albanese per il mio stipendio non sufficiente, ho semplicemente confuso cause ed effetti, in un pastiche esistenziale, sociale e politico. Tollero le azioni degli Dei, per denigrare i mortali come me, pur essendo i primi causa del mio male; questo è il destino di un popolo vittima della propria finitezza.

    3) Indolenza violenta. L’italiano è in genere indolente, sia fisicamente che mentalmente. Accelera pensiero e azione solo quando una sollecitazione titilla uno degli istinti preferiti come mangiare, scopare e spiare. Non esiste un umore medio e prevedibile, tutto diventa o assolutamente lento o terribilmente rumoroso e febbrile. Sia che siate in un negozio, alle poste o dal medico, aspetterete tempo indeterminato a causa della pigrizia altrui, pronta a svanire al minimo centimetro di coscia in mostra.

    Cosa c’entra la violenza? L’ Indolenza violenta si manifesta quando dallo stato di lentezza (o pigrizia) repentinamente si passa ad una accelerazione (eccitazione) con un commento su un fondo schiena, un immigrato, l’avversario sportivo e cosi via. Accellerato il proprio stato, si è pronti a  passare a forme di violenza fisiche e verbali, che si quantificano in esplosioni emotive riconosciute come parte dell’anima mediterranea. Allora si urla, si gesticola e ci si dimena in maniera ridicola e imbarazzante:  siamo violenti e vogliamo occupare lo spazio e gli altri. Vogliamo fagocitare nella nostra apparente e fasulla tranquillità, l’universo altrui, per assorbire con la nostra violenza fisica e verbale tutto quello che non comprendiamo o che non vogliamo accettare. La violenza è nel falso indolente ed in tutte le sue azioni interessate a rendere a proprio pro.

    4) Volgarità. L’Italia non e’ volgare da un punto di vista paesaggistico e architettonico, sono solo gli italiani ad esserlo. Consolidando l’idea che quattro stracci non faranno di voi dei signori, capirete che quando il Re è nudo, c’è’ da ridere e tanto. Noi tocchiamo, urliamo, spingiamo, ci dimeniamo nel tentativo di essere presenti assolutamente. Questo processo passa per un’esternazione rumorosa e debordante di tutti noi stessi che spesso si tramuta nel toccare il proprio interlocutore, quasi come per avvilupparlo nella morsa viscida di una piovra. Lentamente avvinghiamo chi ci sta intorno, per attrarre e poi divorare. E credetemi, se un giorno riuscirete a guardarvi dal di fuori, proverete disgusto e ne capirete l’orrore/errore estetico. Che vi piaccia o no, difficilmente riuscirete a divincolarvi dall’associazione ai simulacri patinati di Jersey Shore: simulacri eccessivi della nostra più volgare rappresentazione. E  non c’e’ Gucci che tenga dal non farvi sembrare degli scimmioni con un buon tessuto indosso.

    5) Provincialismo.  Questo e’ il male più silenzioso e strisciante ed e’ quello che ho lasciato per ultimo, cosi’ per analogia con l’inferno dantesco. Il provincialismo va inteso come un atteggiamento esteso a tutte le realtà urbane italiane, non come definizione di una provenienza ma come  forma mentis. Il provincialismo è quel modus per la quale le persone si giudicano per come appaiono, come appaiono esteticamente e come tengono alla loro dignità esteriore. Questo, appunto, definisce il campo delle virtu’ pubbliche e dei vizi privati. Le cose, nella provincia, si devono nascondere: si celano dagli occhi di tutti, perche’ in Italia, tutti ti guardano per sapere cosa fai e cosa sei, per parlare di te e di come sei secondo la scala dei valori del moralista provinciale. L’immagine pubblica e’ il metro fondamentale della vostra credibilità, di quanto siate rispettabili e di quante possibilità vi possano essere affidate. Ecco perche’ negri, albanesi, rumeni e omosessuali sono e saranno per lungo tempo un problema. Gli italiani devono sapere con chi scopano, cosa fanno e  come si vestono ed così come hanno infilato telecamere nel culo di chiunque per sapere cosa fanno i grandi e sa fanno schifo come noi. Il bieco spiare dal buco della porta, per guardare e giudicare gli altri, che sono e saranno sempre peggio di voi. Loro.

    PS Evitatemi raffronti con altri paesi, d’Italia e di italiani si parla, che vi piaccia o no.

     
  • 07:22:57 PM on giugno 12, 2011 | 15 | # |

    Vota, l’Italiano metafisico all’estero.

    Se sei iscritto all’AIRE, l’anagrafe degli italiani all’estero, ti arrivano comodamente le schede elettorali (o referendarie che siano) per votare da casa e rispedire tutto, gratuitamente, indietro. Tutto perfetto e funzionale nella sua meccanica, nulla da obiettare.

    La questione che mi sono posto, invece, è di ordine morale o se più vi piace per l’inflazione del termine: etico. E’ giusto, quindi, che gli italiani all’estero votino?

    Andiamo, prima di tutto, a vedere le due tipologie di connazionali che vivono, ad esempio, in Irlanda.

    Residente all’estero, con regolarità d’iscrizione all’AIRE.
    Individuo X è residente all’estero e regolarmente iscritto all’AIRE, con la conseguente perdita temporanea di alcuni privilegi nel paese di origine, come ad esempio l’accesso alla sistema sanitario. Quindi X risiede effettivamente all’estero, ha perso alcuni diritti nel proprio paese di origine, ma può continuare a votare e decidere chi governa cosa e dove.

    Residente all’estero (da oltre 12 mesi) senza regolare iscrizione all’AIRE.
    Individuo Y che vive all’estero ma non si iscrive all’AIRE, per posizione personale o semplice lassismo. Il tipo Y, lavora all’estero, paga tasse in un altro paese, continua ad avere accesso a tutti i servizi pubblici del paese d’origine e vota tranquillamente solo tornando a casa.

    X e Y hanno entrambi il diritto di voto in Italia, con l’unica differenza nella modalità di voto. Il primo riceve le schede – ad esempio – in Irlanda, l’altro, invece, deve prendersi un volo per accedere all’urne.

    Partiamo dal presupposto, che al di la della mancata all’AIRE o meno, nessuno dei due avrebbe diritto a votare in Italia. Né X né Y vivono più in Italia, non pagano tasse derivanti dai loro guadagni[1], non sono un vantaggio per l’economia nazionale e non vivono fisicamente il contesto civile e sociale del paese. Magari c’è empatia verso determinate situazioni, ma nella pratica oltre quello non si va.

    Noi, che viviamo all’estero, non dovremmo votare per il semplice motivo che non viviamo più in Italia e non dovremmo temporaneamente avere il diritto di decidere chi e cosa mutare, a dispetto di chi invece si trova fisicamente lì.

    Noi non abbiamo il diritto di cambiare le sorti politiche e sociali del paese, perché abbiamo fatto una scelta ben precisa, che seppur transitoria, nel momento del suo essere in atto deve essere rispettata fino in fondo. Questo è etico, se vi piace chiamarlo così.

    Non è etico, invece, esprimere il mio diritto di voto quando di fatto risiedo altrove. Perché materialmente il contatto con il paese è puramente empatico e  si traduce nel solo piacere di leggersi tutti i quotidiani italiani on line per puro vouyerismo informativo.

    Allora mi viene da pensare che qualcuno ritenga la posizione geografica non corrispondente alla residenza spirituale. Si vive in Irlanda, ma spiritualmente si vive in Italia. Questo è l’Italiano metafisico: vive in terre straniera, ma è idealmente in Italia. Legge i quotidiani italiani, guarda i canali Rai e Mediaset con la parabola e parla italiano al lavoro e con gli amici. Vive all’estero, stando a casa. Questo, sia ben inteso, è un discorso che riguarda una classe di persone determinata e non comprende tutti i connazionali che vivono altrove.

    Data quest’ultima fattispecie, il voto dell’Italiano all’estero avrebbe un senso, per che di fatto egli è sensibile a tutto quello che accade in Italia, seppur non partecipi alla vita civile e politica. E se poniamo il fatto che neanche gli italiani residenti si interessano alla res publica del paese, allora X ed Y sono uguali a Mario Rossi; essi risiedono solo in posizioni geografiche diverse. L’interesse per la vita politica del paese è, in definitiva, un mero atto informativo ma non partecipazionale: si osserva, si commenta ma non si partecipa, se non alle eccitazioni di massa per il voto, che sono più che altro espressioni di un fazionismo passatista.

    Il voto degli italiani all’estero è, quindi, un atto di populismo politico, che si dovrebbe giustificare nella proposizione “se mai un giorno tornerete a casa”. La risposta è nella domanda stessa, che esprime una situazione di possibilità e imprevedibilità . Effettivamente, voi non sapete se, come e quando tornerete in Italia.

    Ma al di là di queste considerazioni personali, io continuo a non vedere l’onestà intellettuale di votare quando si vive legalmente in un altro paese. Più che altro, dovremmo votare qui, visto che chi vi toglie o mette strade, chi prende dalle vostre tasche oggi vive in Irlanda.

    Ma questo è il paradosso sottile delle democrazie, dove il demos può scegliere cosa e chi, senza però sapere mai come farlo nel modo corretto. Allora voti in Italia, pur vivendo in Irlanda.


    [1] Vero in linea di massima, poiché molti residenti all’estero non iscritti AIRE, evadono il fisco italiano, non dichiarando i loro introiti nel paese di residenza. Seppur la questione sembri fumosa, si dovrebbero pagare le tasse all’erario italiano qualora non si sia provveduto al cambio di residenza estero. Questo, ovviamente, per il fatto che si usufruisce, almeno formalmente , di tutti i servizi pubblici e statali. Ci metto, comunque, un punto interrogativo, visto che personalmente non sono riuscito a fare chiarezza sulla questione.

     
  • 03:41:51 PM on novembre 9, 2010 | 32 | # |

    Retro-Syndrome: Irlanda ti odio.

    Non ho dimenticato questo spazio, che tante gioie e sofferenze ci ha regalato, solo perche’ sto lavorando a Bloomcast da qualche mese.

    Come sempre raccolgo dall’immenso archivio inorganico della rete, interessanti stralci di sofferenza provata dopo solo un anno in Irlanda.

    Vi lascio alla lettura di un brano decisamente interessante.

    Siamo nel 2007 in Irlanda e qualcuno lascio’ le sue impressioni su un forum.

    Buona lettura.

    Dopo 1 anno in Irlanda..

    ….questo e’ quello che penso.

    L’Irlanda molti la definiscono un paradiso. Indubbiamente lavoro ce n’e’
    tanto e bene o male si impara l’inglese (anche se l’inglese medio degli
    italiani all’estero mi e’ sembrato veramente scarso, pure di quelli che
    fanno lavori decenti).

    Il posto sarebbe pure carino di per se, tanti prati, scogliere, alcune
    spiagge etc.

    Ma il tempo non si puo’ dire che permetta di goderselo.

    Lo sport nazionale e’ bere birra fino a rovinarsi, vomitare, e avere un
    hangover della madonna il giorno dopo. Il cibo e’ qualcosa di
    secondario, infatti la stragrande maggioranza della gente mangia merda
    (ed e’ quello che mangio pure io spendendo 6 euro per un sandwich alla
    subway – qui dove lavoro oltre a questo e alla Spar non c’e’ altro). I
    ristoranti sono cari e spesso ti danno porzioni ridicole.

    Sono un nuotatore. Qui le piscine, a parte rare eccezioni, tra l’altro
    localizzate in posti scomodi, fanno schifo. Non esistono squadre master
    e i bagnini sanno nuotare peggio di me. Se qualcuno affoga mi chiedo che
    fine fara’.

    Il lavoro e’ ben retribuito, di sicuro meglio che in Italia, anche
    perche’ le tasse sono piuttosto basse. Solo che pensione e assistenza
    sanitaria sono private, e quest’ultima non comprende le visite dal
    dottore in caso di influenza, raffreddore etc ma solo l’ospedale. I
    farmaci sembrano costare meno. Qui sono indubbiamente piu’ meritocratici
    di noi italiani, anche se dove sto io il lavoro e’ di una noia mortale
    nonostante i 52k annuali che mi pagano (3200 netti/mese). I manager cio’
    nonostante li ho trovati abbastanza incompetenti per il ruolo che
    coprono. Pure i colleghi (tecnici), sono piuttosto incompetenti. Gente
    brava, appassionata, ne ho conosciuto poca (questo anche spiega la
    “fame” delle aziende nel trovare personale specializzato in loco, e la
    possibilita’ che gli stranieri offrono per queste ultime).

    Le case e gli appartamenti, salvo rare eccezioni, sono di qualita’
    infima. Inoltre hanno impianti elettrici e di riscaldamento degni ai
    Italia degli anni ’70. Pero’ ovviamente si sono adeguati ai prezzi
    europei, cosi’ un monolocale a Dublino ti costa minimo 950/1000 euro al
    mese mentre qui a Cork te la cavi con 900.

    Eventi culturali, ben pochi direi. Al teatro ci vanno pochi. Anzi qui
    non so nemmeno se ne esiste uno. Nessuno ne parla.

    L’irlandese medio quando va in vacanza (solitamente a Tenerife o qualche
    posto da comprare con un low cost) pensa in genere a bere smodatamente
    come fa a casa propria -inquinando e lasciando bottiglie, cartacce
    ovunque- e a fare shopping. Una mia collega e’ stata 3 mesi negli USA,
    ci ha parlato solo degli shopping center nei quali e’ stata. Il mondo e’
    bello perche’ vario.

    La vita notturna e i divertimenti offerti dal mio punto di vista e’ in
    generale deprimente. Premetto che non vado molto d’accordo con
    discoteche, nightclub vari e le persone che li frequentano. Le ragazzine
    si vestono praticamente nude (a costo di morire di freddo, si vede
    chiaramente che tremano) e portano delle scarpe col tacco che nemmeno
    sanno indossare (infatti se ne vedono parecchie scalze camminare a fine
    serata). Quando si ubriacano cominciano a urlare “Yuuu-huuu” per strada
    come delle oche starnazzanti e si fanno col primo che passa.

    L’obiettivo generale, come gia’ detto, e’ ubriacarsi all’estremo, senza
    badare troppo alla propria dignita’. Questo e’ il divertimento, questo
    e’ per loro il “craigh” (termine gaelico). Pensate che io sia un
    bacchettone? Assolutamente no, ma quello che e’ divertente vedere
    qualche volta, alla lunga stanca, e in tal caso fa pure schifo.

    Le persone in genere, al di la di fare quello che sopra ho citato, non
    hanno altri interessi. Infatti difficilmente riesco a parlare di cinema,
    cultura, libri, musica, o quant’altro con un irlandese. I newsagent sono
    tappezzati di giornali gossip, e persino i quotidiani di attualita’
    riportano in prima pagina le magagne del Tom Cruise (o chi cavolo ci
    volete mettere in mezzo) di turno piuttosto che gli avvenimenti di
    politica estera.

    Detto questo, vale la pena (per me), stare in un posto del genere? Se
    guardiamo meramente al vile denaro, la risposta e’ ovviamente si’.
    Pagando 500 euro per una stanza, bollette comprese, con altri 500 ci
    vivo pur non facendo cose spettacolari. I restanti 2200 li metto da parte.

    Se guardiamo al fattore qualita’ della vita, dal mio punto di vista
    personale, questo posto e’ una barba oltre che uno show pietoso ogni
    sabato sera.

    Conviene (a mio avviso), restare? No. Io sono un amante della vita
    all’aperto, del mare, del sole, della buona cucina, delle amicizie
    profonde e non basate sul livello di alcool che si ha in corpo, delle
    citta’ che puoi sentire tue.

    Per farla breve (scusate se fin’ora non lo sono stato):

    Ciao Irlanda, me ne tornero’ in Italia.

    Tu sei cresciuta male, ti hanno gettato quella valanga di soldi troppo
    in fretta. I tuoi abitanti non hanno avuto modo di crescere, di farsi
    una cultura degna da paese Europeo. Ti sei fatta conquistare dalle
    multinazionali americane, da uno stile di vita che e’ diventato un
    ibrido orribile tra capitalismo e ignoranza.

    Un esperienza che dovevo fare. Ma che ora ho voglia che appartenga al
    passato.

    fonte: http://it-lavoro.confusenet.com/showthread.php?t=67237&pagenumber=&67237-Dopo-1-anno-in-Irlanda=

     
  • 07:38:05 PM on ottobre 18, 2010 | 0 | # |

    Due Lyndon ed un Bacco fanno Bloomcast.

    Questo spazio non ha ancora terminato il suo percorso, seppur abbia fatto molta più strada di quanto avessi pensato originariamente.

    La Sindrome di Lyndon verrà ancora aggiornato fino ad arrivare ad un limite che ho già definito nel futuro. Purtroppo, per l’irrequietezza, che mai mi abbandona, ho deciso di farmi ubiquo per essere presente anche su un altro piano.

    Per l’esattezza mi troverete anche su Bloomcast per un tempo indefinito, ma con ragioni molto specifiche.

    Due Lyndon ed un Bacco fanno Bloomcast. Almeno lì.

     
Pagina successiva »